Satyricon – “Nemesis Divina” (1996)

Artist: Satyricon
Title: Nemesis Divina
Label: Moonfog Productions
Year: 1996
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “The Dawn Of A New Age”
2. “Forhekset”
3. “Mother North”
4. “Du Som Hater Gud”
5. “Immortality Passion”
6. “Nemesis Divina”
7. “Transcendental Requiem Of Slaves”

For the great day of wrath is coming, and who shall be able to stand?

Il nodo norreno dalle fauci spalancate sull’elsa di una spada cinta da mani nervose, pronte alla battaglia, è davvero l’ultimo segnale, l’ultimo elemento a ricondurre la mente verso un periodo così lontano da sembrare ormai finzione – le memorie fotografiche ante litteram nella mente, ferite invisibili che fanno da ponte bruciato tra la nascita di un nuovo tempo di decadenza e la fine del mondo antico che trema sotto i passi e i colpi dei nemici di Dio; in altre parole, “Nemesis Divina” è una Rivelazione, un’apocalisse, il grande terremoto conseguente sopra al cui peso fatale il sole diventa nero corvino come l’occhio fosse irreparabilmente graffiato dal battito di un’ala o per l’eternità filtrato da un sacco di pesante iuta, e la luna, da lattescente a viscosa, divenuta scarlatta come il sangue, compresenti nello stesso identico istante tra il turbamento del cielo, all’unisono attoniti fuori dalla concezione temporale.
È davvero l’alba di una nuova era, di una nuova età dell’abominevole, del grottesco e del putrido quella che i Satyricon cantano e di cui reclamano il trono nel 1996, per la prima ed ultima ufficiale volta nella loro storia come misantropico trio mentre la terra sotto i loro piedi brucia in un mare di fiamme, mentre montagne e rocce immortali vengono strappate dalle loro radici sotterranee e cadono, le stelle del Paradiso si riversano in Terra nel tentativo inutile di rovesciare il male respingendolo nelle viscere del globo da cui sembra provenire (quanto erroneamente!). Ma le profezie di orrore infine si avverano, le predizioni si compiono in tutta la loro inaudita disastrosità e la guerra dai contorni escatologici tra il prima e il dopo ha inizio.

Il logo della band

La conquista è perpetrata in sette parti contornate di leggenda, roboanti come mai prima nel cammino già illustre del duo esistente -ha dello straordinario pensarlo- solamente da un lustro appena compiuto: dalle brume di pionierismo medieval-folkloristico nel tetro “Dark Medieval Times” alla magia nera norrena praticata nei domini del pagano “The Shadowthrone” – dalla congiura atmosferica ordita nella doppietta di due anni prima, in “Nemesis Divina” l’incantesimo si spezza e dal canto si passa infine all’azione più spietata; dal trono nella foresta avvolto nel buio, a quello rimasto vuoto ma visibilmente illuminato dal clangore durante e dopo la battaglia finale combattuta con i rinforzi di menti affini. I sodali Darkthrone, spalleggiati da Satyr nel momento anticosmico per eccellenza del duo di Kolbotn del 1994, già stampato “Panzerfaust” da Wongraven nel 1995, vengono reclutati per l’ultima crociata del nord e Nocturno Culto diventa persino Kveldulv per reggere con le sue sei corde bipenni l’armageddon tellurico dei cimbali temprati di Frost mentre Fenriz presta l’onore delle sue semplici ed eloquenti doti di scrittura lirica per uno dei brani più ricolmi d’odio e di violenza del disco. Ma la gestazione di “Nemesis Divina” non per coincidenza fortuita giunge al culmine di un momento estremamente particolare ed irripetibile nella storia di chi presuntuosamente lo performa con aggressività: quello della chiusura di un gruppo di artisti eletti su sé stesso, nel mondo appartato di “Nordavind”, di “Høstmørke” e “Fjelltronen” ma anche di “Vikingland” e “Hvite Krists Død”, nell’abbraccio dei boschi profondi di quella antichità amata-odiata che è la rivolta ultima di un’aristocrazia rancorosa contro il circostante in moti di aperto e conclamato nazionalismo romantico, ma al contempo una kamp med Kvitekrist altrettanto impossibile da coccolare ulteriormente per menti così rivoluzionarie ed attentamente carezzate dai venti del loro tempo, con lo sguardo perennemente rivolto al futuro e i cuori perennemente in guerra contro tutto.
C’era una volta una umanità: ma questa non esiste ormai più, nel senso più ampio del suo termine, ed il decreto profetico è quello di uccidere con spada, con la fame, con la carestia e con la falce, con l’istinto bestiale a guidare la bassezza di azioni che segnino la fine del mondo conosciuto, divorato da un oceano di vampate e stritolato dallo Jǫrmungandr dimenticato. La campana della vendetta suona incontrovertibile, il cataclisma è alle porte che si aprono sull’incipit divenuto iconico dell’alba di una nuova era, l’inquietudine si insinua nella musica dei Satyricon e la sua nobiltà ferita, novella piaga della Luce, non mostra più alcun rispetto possibile: il volto di Dio è ricoperto da uno sputo di bile, la croce di legno antico (simbolo non di una, bensì di due civiltà) è capovolta e brucia, nessuna pietà mostrata per quel falco emblema di una potenza vivente che fu, ora miseramente inchiodatovi al rovescio. Il suo sangue, lo stesso nel Regno dei Cieli e dei suoi campi intrisi come tremebonda vendetta per quelli terreni della Madre del Nord sanguinante nella respinta fervente della cristianità dal suo impero.
Ma è soltanto un pretesto.

La band

This is Armageddon.

La silhouette di un cavallo pallido e malato su cui svetta ridente la morte con Inferno intero al seguito si staglia dinnanzi a colui che viene travolto dal vento fetido di “The Dawn Of A New Age” mentre Satyr, inumano e gelido come il ghiaccio ed altrettanto magnetico, carismatico ed orgoglioso quanto solo il disco a cui le sue parole rubate e rivoltate come una serpe sventrata dall’Apocalisse di Giovanni forniscono travolgente introduzione, permette l’effondersi sul pianeta delle scritture dissacrate e le fa tramutare in realtà raccapricciante per mezzo di declamazioni algide che, in una visione perforata, spazzano via quelle di Nebelhexe -profetessa pagana il cui verbo mitico mette i brividi e gela il sangue- aprendo la composizione ad una raffinatezza tecnica forse anche in linea con Emperor ed Enslaved coevi ma ad un’elaborazione del songwriting aliena ad entrambi; senza che la resa finale ne sia compromessa, l’aggressività al contrario viene accresciuta in impatto dalle fantasie ed immagini bibliche veicolate dal caos in musica, dai riff profetici di un’evoluzione che sarà tre anni dopo (e così influente per le derive del Black Metal d’avanguardia e cervellotico del nuovo millennio), dal suono acido delle corde che sferragliano nitide ma rumorosissime, del gelo che si insinua come terrore nell’animo quando irrompono le tastiere su ali di morte e pestilenza. Potrebbe veramente finire tutto qui, ma è solo l’inizio della valanga, della spedizione punitiva. È quel Bratland che sarà successore quindici anni più tardi di Mustis nei Dimmu Borgir (elemento a sua volta estremamente influenzato proprio dall’operato del proprio futuro precedente su “Nemesis Divina” per l’evoluzione della sua band e della corrente più barocca dal 1997 in poi), a suonarvi le tastiere sotto dettatura di Wongraven e creare quell’atmosfera sinfonica semplice per toni e pad ma grandiosamente spettrale che apre anche “Forhekset”. Il Black ‘N’ Roll successivo ed i germi di “Volcano” sono già qui, il Folk esplicito nella coda del brano è il punto d’arrivo di un modo d’intendere il Black Metal per Moonfog tutta e relativi associati tra il 1993 ed il 1995, e nel frattempo i riff macinano una perizia di scrittura in musica senza mezzi termini di violenza che il genere nel 1996 ancora mai aveva testimoniato altrove. È quella che stregata apre la maestosità nordica incantata di “Mother North”, dello smaccato patriottismo scandinavo (un’eventuale analisi dovrebbe tenere necessariamente conto del contesto logico della sottocultura nell’area, nel periodo, e di quello che il suo autore consapevolmente vuole dire). Attributi come passionale ed evocativo si sprecano a ragione, mentre gli ignari dormono in un letto leccato da lingue di fuoco e la violenza glaciale e verbale nelle frequenze chitarristiche sparpagliate a tappeto in “Du Som Hater Gud” mostra i tre guerrieri demoniaci spendersi furibondi tra la semplicità diretta e le progressioni d’accordi che creano un vortice d’intensità ancora lontana dal suo culmine. Di nuovo quegli accordi, mutati in pianoforte, danzano con un’eleganza che è ballo popolare antico e d’ottocentesco romanticismo germanico; ma la lotta alla cristianità è un cavillo, un gustoso alibi per combattere l’esistenza, la vita – qualunque forma di vita, tramite l’eliminazione della maggioranza come un cancro amaro nella cavalcata epica di “Immortality Passion”. Dal trionfare di squilli di trombe e fanfare, il quinto capitolo dell’impresa militare porta glorioso le sensazioni di “The Shadowthrone” a trasformarsi nel finale più oscuro mai sentito in musica nel 1996 e la misantropia di cui sopra, ancor più raffinata nel suo movimento più estremo: l’ascoltatore è ormai l’incudine immobile, i Satyricon la mazza impietosa all’albeggiare nero di una nuova mattina di oscurità impenetrabile.
La grazia di Dio proposta in extremis è a questo punto rifiutata nell’ormai esaltata, febbrile coscienza di una giustizia nel massacro calcolato e di una saggezza ritrovata nel martello che non sono più estranee all’uomo nuovo. Non si torna indietro. Il misticismo eretico di “Nemesis Divina” sferra il fendente di pugnale conclusivo nel cuore di Jehova e lo sputo in faccia al suo deturpato figlio, ad ogni forma di speranza, vibrando l’ultimo chiodo arrugginito nel libro della fede violentato. L’eclettismo ipnotico della title-track, parimenti all’opener, getta quindi le sue inquietanti ombre verso un futuro inumano che si svela palese con lo svolgimento da incubo, realizzato a concatenazioni di sogni che sfumano in quella sua incompresa chiosa con fine lungimiranza intitolata “Trascendental Requiem Of Slaves” – il canto di cordoglio automatico di un’umanità intera fatta schiava e senza più alcuna importanza, sulla terra che si rivela universale campo di sterminio per un potere schiacciante e superiore in cui l’individualità viene assorbita e trascende nell’assimilazione a collettivo annichilente con un sussulto terribile, che nei suoi rumori meccanici sovrapposti alla disciplina d’acciaio dei riff sgranati con lutto fornisce un colpo d’occhio in quel momento assolutamente incomprensibile sul nuovo mondo già nato nel 1996 dalle rovine del vecchio.

In order to create, you must destroy – e “Nemesis Divina” effettivamente è la fine di un ciclo involontario qui già osservato a distanza, dall’alto verso il basso e con terribile repulsione dai suoi autori (cresciuti in una manciata di anni oltre ogni possibilità), a cui viene appiccato incendio senza pietà ed in cui si respira acre la misantropia crescente degli uomini che vi stanno dietro, così diversi dal mondo che li circonda e inquieti; ma al contempo l’inizio, quantomeno il germe squisitamente consapevole, di un capitolo unico sia nella discografia dei Satyricon, sopravvissuti incolumi al giorno del Giudizio Universale, che nel Black Metal tutto di fine millennio quale sarà “Rebel Extravaganza” – rimanendo capitolo unico lui stesso. Nell’attesa dello spuntare d’ebano di quella nuova aurora di tenebra che chiude “Immortality Passion” si annida l‘indizio che traghetta dagli oscuri tempi medievali alla modernità più sporca, più infame e disumana passando da qui. La vittoria di “Nemesis Divina” è già quella della distopia di un regno totalitario sprezzante dell’umano che si toglie la maschera bugiarda proprio sul suo finale, in cui avviene una riforma stilistica ma anche teologica: dalla fede nello spirito alla fede nella materia, e nella forza non più di una legione nordica di stridsmenn ma di un superuomo nietzscheano – nel suo supremo individualismo parossistico che perde la bussola e la ritrova nella massa, sotto al regime dispotico di sdegno annunciato dalle sirene notturne e dai megafoni d’urbanismo tossico, claustrofobico in “Tied In Bronzen Chains”.
Nel 1996 è già in corso una trasformazione nella voce, nella personalità del leader che legge il suo programma di rivolta per le masse in “Mother North” (con il suo videoclip controverso e per più d’una ragione storico), nella punizione temporale della Chiesa sostituita dalla punizione eterna del maglio battente; e questa segna per molti la fine di una trilogia mai avvenuta (in quanto “Dark Medieval Times” e “The Shadowthrone” già evidenti figli di un grembo totalmente differente, allontanati dalle escoriazioni caustiche di “Nemesis Divina”), ma sicuro punto di non ritorno per la band e per il genere evolutovi. Il suono sporco ma ricco di profondità, le partiture scoccate rumoristicamente almeno quanto negli antefatti ma con una potenza di fuoco centuplicata – un precedente suo malgrado del menefreghismo atmosferico successivo al 1996 nelle produzioni svedesi (anche se, del resto, gli Abyss Studios stanno già compiendo la loro rivoluzione ben poco silenziosa con il primo Dark Funeral e l’imminente cambio di pelle dei Marduk); eppure non è certo nei criteri produttivi la differenza più grande, bensì nel modo di suonare, nella raffinatezza compositiva che lo ha reso un disco capace di oltrepassare -e far valicare al gruppo che l’ha composto- un genere. La scalata verso i piani alti non inizia infatti con l’ammorbidimento di “Volcano” come vorrebbe retorica fin troppo abusata, non dal cosiddetto cambio di rotta che non fu affatto tale in “Rebel Extravaganza”, bensì da qui – dalle aperture in songwriting di “Mother North” ed “Immortality Passion” di quella che resta la più celebre e rinomata opera della sua band, con ogni probabilità nemmeno la migliore ma comprensibilmente forse la più amata, nonché disco eccezionale di per sé e per molti uno dei migliori nel Black Metal di sempre.
“Nemesis Divina” è dunque la storia di un vero mito che si è voluto e cercato di omaggiare in alcuni dei suoi più importanti aspetti nella -lunga, ma ampiamente dovuta- conclusione di retrospettiva in corso, di una band che ha sfondato l’immortalità con quattro colpi di cui ne sarebbe bastato uno e che è fino alla conclusione dello scorso millennio stata un passo avanti a chiunque; dell’élite che ha dichiarato guerra senza pace contro il sacro ed il giusto, contro ogni morale nella rivolta ultima dell’oscurantismo e della violenza per dare voce, fornire espressione ad un nuovo sentimento d’impotenza ed ansietà fin de siècle di cui i protagonisti stessi del cambiamento sono intrisi. Si tratta dunque di un’opera autoconclusiva da un lato, ma come s’è visto per molti altri versi anche di un flagello transitorio nell’unione di anime eternamente perdute e condannate sotto il segno della naturalitater et inevitabiliter mala et vitiata natura; la fotografia di uno scranno umano rimasto dolorosamente vuoto, schiacciato dall’inumano. Il falco un tempo appolaiatovi regalmente, miseramente crocifisso e sacrificato in un rituale di crudeltà senza senso – una mancanza, una paura che porterà a reagire come ribelli e stravaganti all’incombere di un mondo moderno mentre il legno bruciato si solidifica in magma nero e diventa sporco cemento armato.
La reazione a questa insicurezza insopportabile sarà “Rebel Extravanza”: sarà il gemellaggio coi Thorns del debutto e della mente finissima del compositore e cantore Satyr, dell’uomo che nella convergenza tra millenni ha fatto della sua band, operato ed etichetta stessa opera d’arte, con l’altra strabiliante di Snorre Westvold Ruch. La cospirazione di una trama atmosferica tra le più potenti dei suoi anni prima, l’esplosione in sofisticazione e scrittura ora, il genio evidente poi: gli anni ‘90 hanno sicuramente avuto svariati volti – ma uno di questi è quello di “Nemesis Divina”.

For straffen maa komme…

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=ARzNz0L2rHQ

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